Che il rapporto tra Obama e Marchionne fosse di gran lunga migliore di quello con gli ultimi presidenti del Consiglio italiani apparve evidente a tutti quando, nello stabilimento di Jefferson North, vicino a Detroit, il capo della Fiat, accogliendo il presidente Usa incassò anche il suo grazie: «Grazie Sergio». Obama, inoltre, si disse convinto del fatto che l’ad italo-canadese stesse facendo un gran lavoro. Abbiamo chiesto ad Aldo Enrietti, Professore associato di Economia Industriale presso la Facoltà di Scienze Politiche di Torino, se la conferma per un secondo mandato potrà avvantaggiare l’azienda controllata da Fiat.
Marchionne dovrebbe brindare alla rielezione di Obama?
Diciamo che Chrysler è potuta diventare quella che è non tanto perché Obama, personalmente, se l’è presa a cuore, quanto perché è stato coerente con l’interventismo e con gli eccessi di presenza dello Stato nell’economia tipica dei presidenti socialisti. Alla base delle scelte industriali del presidente, vi sono motivazioni dei carattere ideologico.
Può spiegarci meglio?
Beh, non dimentichiamo che, nel 2009, buona parte dei repubblicani chiedeva, semplicemente, che l’azienda fosse lasciata fallire. Secondo loro, sulle sue ceneri, in seguito qualcosa sarebbe rinato. L’amministrazione Obama, invece, optò per il salvataggio, individuando in Marchionne la persona giusta per poter dare una prospettiva all’impresa.
Ci ricorda in cosa consistette tale salvataggio?
La parte malata dell’azienda fu separata da quella produttiva e in buona salute. Il 25% di quest’ultima fu venduto a Fiat mediante un lunghissimo contratto che ne definiva gli obblighi per poter aumentare, in futuro, la propria quota. Le condizioni erano relative alle esportazioni, agli investimenti, alla realizzazione di nuove piattaforme, di nuovi motori a basso impatto ambientale e di nuove tecnologie. Le quote rimanenti appartenevano al fondo VEBA (gestito dal sindacato statunitense UAW), al governo statunitense e a quello canadese. A tutto ciò si aggiunse un prestito oneroso a Fiat da parte del governo che, attualmente, è stato restituito.
Quindi, tornando a oggi, quanto può incidere sul futuro dell’azienda la rielezione di Obama?
Beh, al di là della sintonia di fondo tra Obama e Marchionne e della decisione dell’amministrazione di mantenere o meno gli inasprimenti dei vincoli ambientali sui consumi, non credo molto; tanto più che la Fiat è stata in grado di importare tecnologie motoristiche in grado di ridurre i consumi.
Se fosse stato eletto Romney cosa sarebbe cambiato?
Posto che le differenze siano così marcate, probabilmente non avrebbero influito più di tanto su Chrysler quanto, piuttosto, sulle aziende automobilistiche eventualmente in difficoltà. Anche perché, a oggi, le difficoltà principali di Marchionne riguardano l’acquisto di un ulteriore 3% di quota detenuta dal fondo VEBA. E’ stata aperta una vertenza in tribunale che riguarda il prezzo da pagare e, in questo, il governo può fare ben poco.
Quanto potrebbe aver influito, invece, l’operazione Chrysler sulla rielezioni di Obama?
E’ presumibile che il salvataggio possa aver sortito qualche effetto sugli operai che, oggettivamente, hanno beneficiato della decisione e avuto modo di apprezzarla. Anche se, a onor del vero, i contratti cui sono stati, in seguito, sottoposti non sono particolarmente favorevoli.
La rielezioni potrebbe ulteriormente spostare il baricentro di Fiat dall’Italia agli Usa?
Non credo. Le scelte relative allo spostamento della produzione dipendono da tutt’altri fattori, quali le condizioni relative al sistema finanziario dei Paesi in cui si andrà a operare o la ricettività dei mercati.
(Paolo Nessi)