Paul Thomas Anderson è un regista di altri tempi, nonostante i soli 52 anni di età, un po’ perché si è formato alla scuola della New Hollywood con Robert Altman come maestro, ma soprattutto perché non è minimamente interessato a raccontare il presente (lo ha fatto solo tre volte in nove film) o rendere visivamente contemporanei i suoi film, ancora realizzati in pellicola, di cui è un fiero difensore. Ciò che però li rende qualcosa di diverso da semplici miniature di un passato imbalsamato è la fertilità dei suoi personaggi, delle storie che raccontano e di cui la macchina da presa diventa cassa di risonanza quasi epica. Ne è una dimostrazione Licorice Pizza, il suo nuovo film, nelle sale dal 17 marzo e nominato a tre premi Oscar (film, regia, sceneggiatura).
La storia è semplice, piccola volendo, quella dell’amore inespresso e costantemente rinviato tra Alana (Alana Haim) e Gary (Cooper Hoffman), due ragazzi – lui liceale, lei poco più che ventenne – che non sanno come comunicare la loro attrazione reciproca trovando il modo per allontanarsi e poi cercarsi di nuovo. Quello che fa Anderson, in primis come sceneggiatore, è costruire il mondo in cui quel soggetto può diventare forte ed emozionante, la San Fernando Valley del 1973, subito dopo la fine della “stagione dell’amore” e dell’utopia hippie e pienamente immersa nel suo neo-capitalismo (come fosse una prosecuzione di Vizio di forma, il film da lui diretto nel 2014) e nel suo desiderio di sfondare, diventare qualcuno nel cinema, nell’imprenditoria o in politica.
Da questo punto di vista, Licorice Pizza (il nome è quello di una catena di negozi di dischi della California del Sud) mescola due mondi cinematografici che viene difficile accostare, ossia quello del cinema americano anni ’70, ovviamente – e non solo per l’ambientazione – e il teen movie debitore di John Hughes che, negli anni ’80, portò il film adolescenziale a livelli di complessità per l’epoca impensabili (un film su tutti, Breakfast Club): Anderson tratta una storia adolescenziale con la vitalità e le sfumature di Hughes e l’ampiezza di sguardo di Francis Ford Coppola (fondamentale l’apporto di Michael Bauman, direttore della fotografia assieme allo stesso regista), a cui non bastano i 35 millimetri della pellicola, gonfiata in fase di stampa a 70 millimetri.
Queste due radici sono come due piani prospettici che si fondono e scambiano di continuo, perché da una parte il film ricrea la vitalità dell’adolescenza e della gioventù, l’incapacità di contenere e comprendere emozioni e reazioni, dall’altra invece vuole riflettere su una società – quella Usa più di altre – che molto presto cerca di ingabbiare le pulsioni giovanili nelle dinamiche degli impieghi, di lavori e occupazioni che finiscono subito per definirci, cosa facciamo diventa immediatamente chi siamo.
Anderson crea immediatamente una connessione coi due protagonisti, cominciando il suo racconto in medias res, e poi si lascia trascinare da loro, segue il loro vagare e correre per le strade di Encino non avendo paura di perdere tempo, catturando attraverso i bozzetti la reale forza di quei personaggi e del mondo che gira loro intorno, che cerca di impacchettare quella vitalità a proprio uso e consumo. La macchina da presa e lo stile sono di conseguenza perfetti per raccontare chi sono questi ragazzi e cosa vogliono, una macchina che si muove sinuosa a seguirne i gesti impostati e le maschere, si ferma a cogliere complessi e raffinati giochi di sguardi quando vuole mettere in scena il mistero dei sentimenti ed esplode in veloci carrelli che seguono Gary e Alana (che rivelazione le interpretazioni di Haim e Hoffman) correre lungo le strade quando hanno bisogno di liberarsi.
Apparentemente minimo, sconnesso e frammentario come le sensazioni della giovinezza, Licorice Pizza è un film capace di illuminarsi spesso di grande cinema (la fuga col camion in discesa, la corsa in moto con Sean Penn), di far passare la soddisfazione del pensiero e del cuore dello spettatore per l’appagamento dei suoi occhi. Tutt’altro che nostalgico (d’altronde, il regista non lo è mai stato), il film diretto da Anderson mette costantemente in questione ciò che racconta, i personaggi che descrive, i contesti con cui si confronta e sa amplificarne il senso e la forza con l’amore per il cinema, la cura per quell’immagine che non deve essere scontato, non può esserlo, anche in quella che può sembrare la più scontata delle storie.
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