È noto che nelle organizzazioni di volontariato normalmente i lavoratori svolgono la loro attività gratuitamente; le associazioni possono legittimamente rimborsare i volontari dei costi che hanno sostenuto per conto dell’associazione per lo svolgimento della loro attività; ma talvolta – come alcuni casi di cronaca anche recente ci mostrano – accade che i rimborsi mascherino una retribuzione, che viene surrettiziamente fatta passare come rimborso delle spese affrontate.
La Corte di cassazione, l’11 febbraio scorso, si è pronunciata su tale questione, con l’ordinanza n. 3279, i cui contenuti vale la pena analizzare. La vicenda ha tratto origine da un’ispezione dell’Inps presso un canile, gestito da una Onlus, nel quale erano adibiti alcuni volontari che percepivano, con cadenza mensile, un rimborso spese di misura fissa. Gli ispettori hanno contestato la mera simulazione del rapporto gratuito e l’esistenza di un lavoro in nero, con la richiesta dei contributi evasi e l’applicazione delle conseguenti sanzioni: il tutto basandosi sulla considerazione che gli orari di apertura del canile richiedevano una presenza costante dei volontari che a loro giudizio era incompatibile con la spontaneità del lavoro volontario; e che la corresponsione di una somma in maniera costante era un forte indice della subordinazione del rapporto.
L’organizzazione, che ha impugnato la cartella, è stata vincente in primo grado e soccombente in sede di appello; ma la Cassazione ha ribaltato la sentenza di appello. I giudici di legittimità hanno reso la loro pronuncia sulla base delle regole di ripartizione degli oneri della prova: ossia se fosse la Onlus a dover provare la gratuità del rapporto o se dovesse essere l’Inps a dover dimostrare la subordinazione di esso; e in che maniera deve essere assolto questo onere.
In effetti, a giudizio della Corte, di per sé non è sufficiente il materiale indiziario raccolto dagli ispettori, perché «in tema di riscossione di contributi previdenziali, l’opposizione avverso la cartella esattoriale di pagamento dà luogo ad un giudizio ordinario di cognizione su diritti ed obblighi inerenti al rapporto previdenziale, sicché grava sull’ente previdenziale l’onere di provare i fatti costitutivi della propria pretesa, quali la natura subordinata del rapporto di lavoro». Allineandosi a un principio di diritto consolidato (vd. anche Cass. n. 10583 del 2017, Cass. n. 19469 del 2018) nei giudizi previdenziali (di impugnazione di cartelle o anche solo di accertamento negativo di verbali), l’Inps appare come convenuto dal datore di lavoro, mentre in senso sostanziale è attore, e dunque su di esso grava l’onere di provare le condizioni che legittimano la richiesta di contributi o l’applicazione di sanzioni.
In altri termini, l’ordinanza dice che in effetti la corresponsione di una somma di denaro in misura fissa e periodica costituisce sì un indice di subordinazione, come pure la soggezione a determinati orari di lavoro, ma è necessario che chi afferma l’esistenza di un lavoro in nero supporti le proprie pretese con prove circostanziate e più consistenti di una mera presunzione.
È frequente che l’Istituto si difenda in giudizio adducendo come prova i soli verbali ispettivi, i quali costituirebbero una prova privilegiata dei fatti accertati, e “scarichi” sul datore l’onere di provare i fatti estintivi della pretesa (nel caso di specie, la genuinità del rapporto di lavoro gratuito). Ma anzitutto i verbali ispettivi fanno piena prova solo dei fatti e delle dichiarazioni verbalizzati dagli ispettori, mentre spesso i fatti appresi vengono “mischiati” impropriamente con le valutazioni personali dei funzionari, che l’Istituto tende (e tenta) di far passare come prova, mentre non hanno alcun valore. Ancora, spesso i verbali ispettivi sono redatti (contro le stesse indicazioni del ministero del Lavoro) sulla base di formulari e riportano non fatti e dichiarazioni realmente accertati e assunti, ma mere formule di stile, che talvolta vengono contraddetti (come nel caso dei volontari del canile) dai testimoni in sede giudiziale.
A chi scrive è capitato di leggere verbali nei quali lavoratori, con scarsa o scarsissima dimestichezza con la lingua italiana e nessuna nozione giuridica, si riferissero all’opera prestata impiegando termini come «soggezione alle direttive di…», o «referente e superiore gerarchico» e così via. Il che lascia pensare che in questi casi gli ispettori avessero messo in bocca ai lavoratori espressioni che questi non avrebbero mai potuto pronunciare.
In conclusione, l’ordinanza in commento non afferma che è legittimo pagare surrettiziamente i volontari, e come professionista sconsiglierei vivamente di corrispondere ai lavoratori volontari una somma in misura fissa qualificandola come rimborso spese. Essa dice piuttosto che di per sé non è esclusa la possibilità di corrisponderla, avuto riguardo al sostanziale svolgimento del rapporto. E che comunque, in caso di contestazione della natura del rapporto, è l’Inps a essere onerato – prima in sede di verbalizzazione di eventuali illeciti e dopo in sede giudiziale – di provare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.