Un singolare fenomeno affligge il dibattito pubblico in Italia soprattutto in materia di giustizia: più un tema diventa attuale e politicamente sensibile, più è facile smarrire la reale consistenza dei fattori che lo compongono in favore di una deriva ideologica e massimalista.
Non fa eccezione l’argomento delle intercettazioni telefoniche e, conseguentemente, della loro utilità per le indagini, dei loro costi, degli abusi e della fatale invasione della sfera più intima delle persone che ne deriva. Dopo l’abbrivio lanciato dall’intervento del premier Berlusconi alla convention dei giovani industriali riuniti a Santa Margherita, si sono già delineati due fronti contrapposti tra difesa ad oltranza del sistema esistente e limitazione drastica alle sole indagini contro “mafia e terrorismo”.
Ogni giorno che passa, invece, la realtà deve essere affrontata in chiave di sempre maggiore complessità ed anche questa materia non consente valutazioni approssimative. Da un lato, infatti, è innegabile l’insostituibilità dello strumento investigativo nel contesto di criminalità e illegalità diffuse del nostro Paese; dall’altro, sprechi, abusi e deviazioni sono sotto gli occhi di tutti. Analogamente, una maggioranza che vince le elezioni anche sul tema della sicurezza – comprensibilmente avvertito come cruciale dai cittadini – non può contemporaneamente spuntare le più efficaci armi del contrasto alla criminalità di ogni genere, trascurando la ricerca di un giusto rapporto tra giustizia e sicurezza.
Vediamo allora più da vicino le ragioni (almeno dichiarate) che muovono i sostenitori di una riforma restrittiva.
Innanzitutto, i costi enormi delle operazioni di intercettazione: il 33% del bilancio della giustizia, sbandiera il neo ministro Alfano. In realtà, si tratta di un terzo di un sottocapitolo di bilancio, ma pur sempre una somma cospicua. Le statistiche dimostrano però che i costi sono decrescenti e che le prassi virtuose poste in essere in alcuni distretti di Corte di Appello hanno consentito di ridurre le spese. Sotto questo profilo, sarebbero più auspicabili interventi organizzativi e gestionali del ministero della Giustizia che riforme normative.
Contemporaneamente, si lamenta la massiccia diffusione delle intercettazioni che suscita sentimenti da “vite degli altri” e vulnera la libertà e la riservatezza dei cittadini di un paese democratico: potenzialmente siamo tutti intercettati. Anche in questo caso, citare le statistiche senza tenere conto della realtà rischia di essere gravemente fuorviante. I dati dicono che nel 2007 sono state sottoposte a intercettazione circa 124.000 utenze telefoniche, circa lo 0,2 % della popolazione complessiva. Ma attenzione! L’80% delle intercettazioni sono disposte in procedimenti inerenti la criminalità organizzata ed il traffico di stupefacenti, in cui un solo indagato può arrivare a cambiare decine di utenze in pochi mesi proprio per sottrarsi alle investigazioni.
Quanto all’utilità dei risultati, a chi dice “solo mafia e terrorismo” gli osservatori ricordano gli omicidi, i sequestri di persona, le rapine a mano armata o “in villa”, le estorsioni ai commercianti, la pedofilia, le violenze sessuali, ma anche le scalate finanziarie illegali, le grandi frodi e le bancarotte che minano l’economia, la corruzione diffusa, così come l’usura o le truffe alla povera gente: non c’è area del crimine o dell’illegalità in cui le intercettazioni telefoniche non possano fornire (e non forniscano quotidianamente) un contributo risolutore spesso irrinunciabile.
Forse il fronte di maggiore complessità è dato infine dalla discrezionalità giudicata troppo ampia con cui i magistrati autorizzano e dispongono intercettazioni telefoniche, anche grazie ad un sistema di controlli giurisdizionali rigorosi ma formali che non impedisce nei fatti l’effetto “rete a strascico”. Non esiste inoltre un controllo reale sull’utilizzo delle conversazioni nei provvedimenti giudiziari, nei quali finiscono per emergere fatti privati o comunque non rilevanti per il processo.
Ma, in conclusione, se lo strumento investigativo è indispensabile, se il catalogo dei reati non può essere ragionevolmente ridotto, se il problema dei costi deve essere affrontato nell’ambito “dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, che la Costituzione attribuisce al ministro della Giustizia, se l’uso professionale della discrezionalità dei magistrati è difficilmente misurabile e controllabile, di cosa si discute in questi giorni?
A ben vedere il problema delle intercettazioni telefoniche è esploso quando gli organi di stampa – opportunamente forniti di materiale – hanno iniziato a divulgare conversazioni e contatti tra indagati e tra persone estranee alle indagini, per fatti di rilievo penale, ma anche per vicende del tutto private e persino intime. Quando cioè un indispensabile strumento investigativo interno al processo si è trasformato in strumento commerciale o, peggio, di politica attiva, del tutto estraneo alle ragioni per cui è stato previsto ed utilizzato. Pratica agevolata anche dal difetto di controllo e di selezione delle conversazioni da parte dell’autorità giudiziaria.
Da questo punto di vista allora occorrerà procedere almeno su di un duplice fronte.
Senza limitare il novero dei delitti che legittimano il ricorso alle intercettazioni, potrà essere utile arginare la disinvoltura con cui i dialoghi, i contenuti non rilevanti per il processo e i fatti privati vengono riversati negli atti giudiziari.
Nel contempo, ripensare i confini del diritto di cronaca e cominciare a distinguere la doverosa e civile informazione giudiziaria dallo sfruttamento commerciale, politico e a volte ricattatorio di atti processuali.
Non può essere quindi ulteriormente ritardata la previsione del divieto assoluto di pubblicazione delle conversazioni almeno fino al momento in cui nel contraddittorio delle parti il Giudice ne abbia valutato la rilevanza penale; un divieto finalmente sanzionato in modo rigoroso ed efficace nei confronti sia degli organi investigativi, sia della stampa e dei mezzi di comunicazione.
(Saverio Mancini)