Dottor Gallo, alla luce di quanto accaduto sul K2, crede che si sia trattato di una fatalità o la colpa risiede anche nella poca esperienza degli escursionisti?
A dire il vero penso che la causa di quel che è successo sia maggiormente ascrivibile alla sfortuna. Si è trattato sicuramente di una tremenda fatalità la cui causa è tutt’al più da attribuire a fattori climatici difficilmente calcolabili piuttosto che all’inesperienza. Da un po’ di tempo si verificano eventi atmosferici e climatici anomali e difficilmente prevedibili. Anche all’alpinista più esperto risulta molto complicato pronosticare il comportamento del clima.
Quindi non è così scontato puntare il dito contro la natura commerciale della spedizione.
Quando crolla un seracco come quello e segue una valanga di neve non credo che si possa dare la colpa al fatto che la spedizione fosse commerciale. La caduta di un seracco che rimuove tutte le corde fisse è un evento in sé straordinario e rappresenta un grave pericolo a prescindere dal carattere più o meno commerciale della spedizione che ne rimane vittima. Personalmente non mi entusiasma l’idea di portare persone prive di un’adeguata preparazione a 8.000 metri di quota. Ma anche qui dobbiamo distinguere. Infatti vengono chiamate “commerciali” anche spedizioni come questa sul K2, che di commerciale ha ben poco.
Potrebbe precisare ulteriormente quest’ultimo punto?
Spesso vengono indicate come rischiose quelle escursioni organizzate al solo fine di portare in vetta persone che non hanno la minima esperienza di alpinismo. Ciò avviene, ad esempio, sull’Everest. Posso assicurare che escursioni di questo tipo sul K2 non se ne vedono, è tutto un altro discorso. E spesso su questa montagna vengono definite commerciali spedizioni organizzate da grandi alpinisti i quali si mettono insieme perché magari non dispongono del budget necessario a intraprendere singolarmente un’ascensione. C’è un’enorme differenza fra una spedizione di questo tipo ed una organizzata a scopo meramente turistico.
La recente disgrazia occorsa a Karl Unterkircher è stata da molti paragonata agli eventi di cui stiamo parlando. Quali differenze ci sono fra un caso e l’altro?
Nel caso di Karl si parla di alpinismo di punta, estremo. Alpinisti della sua levatura sono sempre alla ricerca di nuovi itinerari, di nuove linee di salita su pareti straordinariamente difficili e sovente inviolate. È chiaro che affrontando simili situazioni il rischio cresce esponenzialmente. Si tratta dunque di due eventi totalmente differenti. Il K2 è una montagna che, sebbene molto difficile, è scalata moltissime volte l’anno. La parete del Nanga Parbat, dove Karl è morto, è una salita che nessuno aveva mai avuto il coraggio di affrontare. Ma in entrambi i casi, e questa è un’opinione personale, mi risulta difficile parlare di “sport”.
In cosa differisce l’alpinismo dallo sport comunemente inteso?
A mio modo di vedere, nella mentalità. L’arrampicata sportiva può essere a tutti gli effetti indicata come sport vero e proprio, ma quando si decide di scalare una montagna come il Nanga Parbat, o il K2, in gioco c’è una riflessione personale, un modo di misurarsi con la vita. Ricordiamoci che nonostante il K2 veda un’affluenza decisamente maggiore di escursionisti rimane una montagna difficilissima e rischiosa. Lo sport per sua natura non prevede una sfida e un confronto così diretto con la morte. Ultimamente però, come ho già detto, anche questo aspetto rischia di essere messo a repentaglio dalla sempre più incerta prevedibilità dei fattori climatici. Un alpinista che ha alle spalle anni e anni di esperienza acquista un’eccezionale familiarità col ghiaccio, la roccia, il seracco. Questa viene però ultimamente contraddetta da fenomeni del tutto inimmaginabili che si verificano sempre di più durante stagioni considerate di norma “buone”.
Spiace però che la montagna faccia notizia solo quando si parla di eventi dal risvolto tragico. Perché l’alpinismo sembra interessare solo in queste occasioni?
Purtoppo questo è un tasto dolente. Tutti noi alpinisti vorremmo avere maggiori opportunità di parlare in maniera positiva della nostra attività e delle nostre imprese, ma i grandi giornali sportivi offrono spazi davvero insignificanti. È da molto tempo ormai che l’alpinismo non è più di moda, interessa sempre meno. Se poi l’unica immagine che se ne dà è sempre così ferale, non si può pretendere che possa esercitare un particolare fascino sulla gente. L’esempio di Unterkircher in questo senso è particolarmente significativo. Quando salì l’Everest e il K2 in un’unica stagione e in stile alpino nessun giornale, se non chiaramente di settore, ne parlò. L’anno scorso è salito con successo in vetta al Gasherbrum passando per la parete nord, fino ad allora inviolata. Ma questo evidentemente non fa più notizia.