Gia in volo verso Bogotà si intuisce che non sarà un viaggio tranquillo. La notizia viene sussurrata tra i sedili in coda. Si cambia rotta. Causa quella simpaticona di Irma, ultima arrivata tra gli uragani, si sfiora il triangolo delle Bermuda per passare su Barbados, Grenada, Trinidad e Tobago. La cosa implica un surplus di lavoro per la Segreteria di Stato Vaticana, che dovrà aggiungere altri telegrammi alla schiera di quelli già inviati ai capi degli Stati sorvolati, e un po’ di tensione per chi non ama volare e, pur di seguire il pontefice, vince la naturale ritrosia a staccare i piedi da terra. Poi la notizia della morte del card. Carlo Caffarra che mette in agitazione i vaticanisti italiani, ormai lontani da archivi e redazioni. Infine arriva lui, Bergoglio, con il consueto sorriso, la prontezza nel ringraziare chi per la verità si deve ancora mettere a lavoro e il desiderio di spiattellare senso e scopo del viaggio.
Che definisce subito un po’ speciale. Giusto per usare un eufemismo. Il Papa va in un paese impastato in un processo di riconciliazione complicatissimo, ancora incerto e senza dubbio ambizioso, dopo un accordo di pace firmato più per testardaggine che per convinzione, a pochi mesi dall’inaspettata bocciatura referendaria che aveva fatto temere il peggio. Va per “aiutare la Colombia ad andare avanti nel suo cammino di pace”, spiega. E mentre da Bogotá a Medellin si attende l’uomo che ha sostenuto e incoraggiato i negoziati tra governo e Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) lui, il pellegrino della pace, va oltre e guarda al prossimo fronte incandescente. “Una preghiera per il Venezuela” chiede ai giornalisti, “perché il paese trovi una bella stabilità” — aggiunge — “in dialogo con tutti”. Da poco ho chiesto ad un interlocutore attrezzato in diplomazia vaticana se Francesco sia audace o folle. Lui mi ha risposto “coerente”. Perché in effetti è solo la coerenza che lo porta a celebrare con il popolo colombiano un primo traguardo nella conquista della serenità dopo 70 anni di sanguinoso conflitto interno e sempre la coerenza gli fa evocare il paese vicino, invischiato in una guerra civile dalle proporzioni ancora da definire, proponendo la stessa via per risolvere i contrasti sociali in atto.
Insomma Bergoglio ingordo: l’inchiostro, con cui il 27 giugno scorso il capo dei guerriglieri Timoleon Jimenez ha dichiarato la fine della lotta armata, in Colombia, dopo anni di scontri feroci e 550mila vittime, non si è ancora asciugato e il Papa brama già un altro successo. Certo il presidente Santos ha molti fronti aperti, a cominciare dai negoziati con l’altra frangia armata, quella che fa capo all’Esercito di Liberazione Nazionale, per non parlare della ferrea opposizione politica della destra di Uribe e dei costi del processo di riconciliazione, ma la strada percorsa potrebbe essere l’unica via possibile anche per il prossimo Venezuela. Il Papa scommette sul dialogo. E non può ignorare che per un paese che si affaccia faticosamente alla normalità, ce n’è un altro, posizionato dal destino e dalla storia affianco, sul baratro della guerra civile.
Dalla Colombia guarda al Venezuela, con la speranza di poter scongiurare quella che rischia di essere l’ennesima inutile strage. La diplomazia della Misericordia è di nuovo a lavoro.