Caro direttore,
ho letto con attenzione, e divertimento, i due ultimi editoriali di don Marco Pozza, che ringrazio per i suoi apporti al nostro Sussidiario. Tuttavia. C’è quasi sempre un “tuttavia” e il mio è condizionato dal non essere né un prete, né tantomeno un teologo. I miei tentativi di riflessione originano solo dall’essere un semplice fedele, purtroppo molto spesso infedele.
L’apologo (posso definirlo così?) della bicicletta credo si attagli perfettamente all’Antica Alleanza, ma il buon Dio si è reso conto, come già sapeva, che l’impresa era quasi disperata e che l’uomo, con o senza rotelle, non avrebbe mai imparato ad andare in bicicletta. Questo perché convinto, in fondo, di poter fare da solo, come spesso fanno i bambini, che però si ricredono dopo un po’ di cadute. L’uomo no, segnato com’è dal peccato originale: appunto la pretesa di poter andare in bicicletta da solo.
Così, Dio si è fatto uomo: l’unica strada per salvare l’uomo, almeno chi accetta di essere salvato. Per rimanere nell’immagine, Dio si è fatto lui stesso bicicletta e la Chiesa, che nella Pentecoste viene costituita, ne è la continuazione, illuminata dallo Spirito e con la reale presenza di Cristo nell’Eucarestia. L’immagine che ne deriva non è di una serie di ciclisti che, per quanto bravi, corrono ciascuno da sé, ma di una squadra, nella quale a ciascuno è chiesto di collaborare secondo le sue capacità. Come dice san Paolo nella Prima ai Corinzi, secondo la “manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune”.
Forse è teologicamente azzardato, ma la squadra di ciclisti diventa una descrizione della Chiesa, corpo mistico di Cristo. E, come ogni altra squadra, ha bisogno di essere guidata, cioè di pastori. Anche perché continuano ad esserci quelli che hanno ancora bisogno delle rotelle, perfino del triciclo. Come accade in ogni famiglia.
Non so se davvero la Chiesa è nata fiacca e senza coraggio, perché la storia del cristianesimo è piena di paurosi, di traditori, di spergiuri, ma anche di eroi pronti al martirio, sia a morire per Cristo che a vivere per Lui, e questo fin dall’inizio. Un inizio che continua ancora oggi, tra di noi e soprattutto dove i cristiani sono perseguitati e per i quali vivere e morire per Cristo non è un modo di dire.
La liturgia della Pentecoste, con il passo degli Atti degli Apostoli, contiene un forte insegnamento non solo per i cristiani. La discesa dello Spirito Santo pone fine alla confusione delle lingue conseguenza del tentativo di fare a meno di Dio, raffigurato nella Torre di Babele. Ma Dio non manda dall’alto un celestiale esperanto: ciascuno continua a parlare la sua lingua, ma sentono anche gli apostoli parlare nelle loro lingue “delle grandi opere di Dio”. L’uguaglianza, e tanto più la fratellanza, tra gli uomini non deriva dalla eliminazione delle differenze, bensì dalla loro accettazione e dalla comprensione, come ancora dice san Paolo, che “uno solo è Dio, che opera tutto in tutti”.
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