Quello che sta capitando in questi ultimi giorni a Eluana provoca alcune riflessioni che sono tanto più opportune perchè si riferiscono a fatti già accaduti in altre epoche storiche. Come disse il filosofo G. Santayana,  «Chi non sa ricordare il passato è condannato a ripeterlo» ed è destinato a ripeterlo con gli stessi errori, commessi (e non ammessi) sotto la bandiera ideologica della qualità della vita. Per non ripetere gli stessi errori con Eluana, leggiamo questi “casi umani”, accaduti, non citati dai nostri quotidiani; osserviamo i risvolti affettivi delle famiglie, dopo la loro morte  richiesta, procurata, con la compiacenza di una medicina ormai tecnologicamente forte, ma resa vana da una miopia dello sguardo, da una povertà di motivazioni a curare ed assistere. Leggiamo per tentare di capire cosa è stata la vita dopo la loro morte, per chi è rimasto. In questi casi i medici abdicarono a una sentenza, non tennero fede al loro compito, che da sempre  è quello di curare dapprima e di assistere sempre e comunque quando non c’è più speranza di guarigione. 



Karen Ann Quinlan, figlia adottiva di una famiglia del New Jersey,  nel 1975, a 22 anni, cadde in stato vegetativo, dopo l’assunzione di un non meglio precisato cocktail alcoolico. Alcuni mesi  dopo, i genitori chiesero che venisse sospesa la respirazione artificiale e dopo una battaglia legale presso la Corte locale Karen venne staccata dal respiratore. Continuò a vivere in respiro spontaneo per 10 anni. Morì però al primo episodio di polmonite che si scelse di non trattare. I genitori avevano voluto la sua fine, non sopportando più di vederla in quelle condizioni. Eppure in un diario tenuto dalla madre si legge: «Per 10 anni con Karen abbiamo vissuto in una attesa estenuante; noi e la nostra famiglia; ci siamo addolorati per 10 anni e abbiamo dovuto provare dolore ancora una volta. Ora non potremo più andare a visitarla alla casa di cura, non potrò più spazzolarle i capelli, parlare con lei. Un vuoto terribile. Per 10 anni quello era il nostro e il suo modo di vivere, andare a trovarla presso la casa di cura, tutti i giorni.  Oramai eravamo molto soli».



Gli altri due fatti accaduti sono più gravi: la decisione medica fu presa solo in base alla disabilità dei due pazienti, anziché al quadro clinico che manifestavano. La cronaca medica e le riviste scientifiche li  ricordano bene con due nomi fittizi: Baby Joe e Baby Jane Doe.

Nel 1982 nasce nell’Indiana Baby Joe, affetto da sindrome di Down e malformazione esofagea: perché disabile, affetto da una patologia esofagea chirurgicamente ben correggibile, non viene operato; muore in sesta giornata di vita per disidratazione e polmonite. Il fatto scatenò in quell’epoca grandi discussioni circa la legittimità del parere dei genitori a determinare decisioni mediche, fino a privare delle terapie dovute i bambini disabili, solo perché disabili.  



Un altro caso pediatrico è quello di Baby Jane Doe, nata nel 1993, a Long Island, con spina bifida (una malformazione della colonna vertebrale con anomalie neurologiche associate). Da subito non ci fu accordo tra i medici circa la correzione chirurgica della malformazione alla colonna vertebrale: il timore era tutto relativo alla successiva qualità di vita della bambina. Si perdette tempo, e così il chirurgo pediatra Koop, favorevole all’intervento, si rivolse al Department of Health and Human Services (HHS): la bambina venne operata, sopravvisse, sì, ma con ulteriore peggioramento dell’handicap per meningite, sopraggiunta nel frattempo, mentre si discuteva.  

Storia docet. Noi medici non possiamo delegare ad altri ciò che ci compete e abbiamo una grave responsabilità: da sempre scopo della medicina è quello di trattare senza pregiudizio, per tentare di risolvere la patologia acuta in atto, anche in pazienti con patologia preesistente, tanto più se tali condizioni sono documentate essere di assoluta stabilità  fino a quel momento.

I tre casi descritti hanno interrogato e interrogano la letteratura medica internazionale e sono un ulteriore stimolo per noi. Le condizioni di Eluana fino ad oggi non sono quelle di una paziente in stato terminale: fino a che non saranno comparsi segni clinici indiscutibili di inefficacia, e soprattutto non procurati da abbandono terapeutico e incuria per il pregiudizio di cui sopra, non si potrà né si dovrà rinunciare all’assistenza di sostegno vitale (acqua e cibo) e di terapie di supporto (anche queste dovute a lei come ad ogni altro paziente).
Per  fare ciò che è giusto basta poco: si deve stare al dato obiettivo del quadro clinico attuale e da questo lasciarsi guidare nelle decisioni mediche, lasciando da parte il dibattito ormai tutto ideologico dentro cui  si è finiti. 

Dunque assistiamo e trattiamo Eluana come ogni persona, viva, in una condizione di stato vegetativo, stabile, cioè una malata cronica che si è anemizzata acutamente. Facciamo il nostro dovere: curiamo e assistiamo. Il resto non è nelle nostre mani.

(Clementina Isimbaldi – Pediatra Ospedaliero Ospedale di Merate – Ass. Medicina&Persona)

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