È stata ampliamente riportata dai quotidiani la notizia che la IV sez. penale della Corte di Cassazione (sentenza n. 32190) ha fatto un passo avanti nell’equiparare la convivenza alla famiglia fondata sul matrimonio. Ma lo ha fatto davvero? E se si, perché lo ha fatto?
A ciò si può rispondere analizzando primariamente il caso. Si trattava di stabilire se il furto compiuto da un ex convivente ai danni della compagna avrebbe dovuto essere perseguito solo a querela di parte così come previsto dal codice penale per l’ipotesi di furto ai danni del coniuge separato o se tale reato fosse perseguibile d’ufficio.
Per scegliere la prima soluzione la Corte doveva argomentare su un nuovo concetto di famiglia o più semplicemente accertare che la condizione in cui versa di fatto il coniuge rispetto al convivente ai fini dell’applicabilità di una norma penale è analoga e tale da meritare lo stesso trattamento? In altre parole, è cambiato il concetto di famiglia o vi sono situazioni che, essendo analoghe, possono giustificare lo stesso trattamento giuridico?
La sentenza sembra tutta sbilanciata nel primo senso e la stampa si è affrettata a schierarsi a favore, riportando certi passaggi della sentenza quale quello secondo cui «oggi famiglia e matrimonio hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello che veniva loro attribuito all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale» . Questa affermazione è palesemente scorretta.
Se fosse “cambiato” il concetto di famiglia e di matrimonio, non si spiegherebbero certe sentenze che invece mantengono un diverso trattamento: i conviventi non hanno diritto alla pensione di reversibilità né possono avvalersi delle norme sulla successione né di quelle che consentono il ricongiungimento familiare. Trattasi anche qui di casi decisi dalla Corte di Cassazione, la quale si è avvalsa esattamente della motivazione opposta a quella qui riportata, riconoscendo che certi diritti sono rivendicabili sono da chi si è assunto, tramite il matrimonio, i relativi doveri. Ha detto, infatti, la Corte in quei casi, richiamando la Corte Costituzionale, che «non è possibile estendere con un mero giudizio di equivalenza tra le due situazioni la disciplina prevista per la famiglia legittima alla convivenza di fatto».
Ma allora, quando è possibile compiere tale estensione? Forse quando le due situazioni di fatto (essere sposati ed essere conviventi) sono analoghe ai fini dell’applicazione di una determinata disciplina e ciò non comporta una parificazione “giuridica” delle stesse. Si sta parlando di fatti e non di diritti. Non si tratta affatto dunque di parificare famiglia legittima e convivenza né di riconoscere che vi sia stato un cambiamento nel concetto di famiglia (cosa che nessuno nega ma che non è detto sia rilevante per l’ordinamento) bensì di un giudizio di opportunità determinato, come dice la Corte, da ragioni di politica criminale.
Al giorno d’oggi vi sono persone che convivono e coppie di coniugi; è dannoso tentare di equipararle, anche perché chi sceglie l’una ha positivamente escluso l’altra, almeno pro tempore.
(Ha collaborato alla stesura dell’articolo Marisa Meroni)