Il cadavere di Pietro Vanacore, uno dei quattro portieri dello stabile di via Poma a Roma dove nell’agosto 1990 avvenne l’omicidio di Simonetta Cesaroni, è stato ritrovato oggi in mare al largo di Marina di Torricella, località Torre Ovo, in provincia di Taranto. Si è legato a una fune e quindi si è gettato in mare. Si parla di suicidio, anche per alcuni biglietti da lui lasciati nella sua vettura poco distante, in cui spiega i motivi del gesto, anche se le circostanze sono tutte da chiarire. Tre giorni dopo il delitto di Simonetta, Vanacore era stato arrestato con l’accusa di essere lui l’assassino. Liberato dopo alcuni giorni, era rimasto indagato.
Il 16 giugno 1993 il gip Antonio Cappiello proscioglie Vanacore perché il fatto non sussiste. La decisione viene confermata il 30 gennaio 1995 dalla Cassazione. Dieci ani dopo, il colpo di scena. Il 12 gennaio 2007 la trasmissione Matrix rivela che dalle analisi del Ris di Parma sarebbe emerso che il dna trovato sugli indumenti di Simonetta è dell’ex fidanzato Raniero Busco. Simonetta inoltre non sarebbe morta alle 18, come si era pensato nella prime indagini, ma alle 16. Le nuove istanze scientifiche comportano comunque una obbligatoria riapertura del caso.
Il 6 settembre 2007 Busco viene iscritto dalla procura di Roma sul registro degli indagati per omicidio volontario e il 28 maggio 2009 la procura stessa chiede il suo rinvio a giudizio per il nuovo processo che ha preso il via il 3 febbraio di quest’anno. Pietro Vanacore avrebbe dovuto deporre il prossimo 12 marzo. Nell’udienza avrebbe potuto avvalersi della facoltà di non rispondere. Abbiamo chiesto, su questa intricata vicenda e i suoi ultimi sviluppi, il parere di Alessandro Meluzzi, psicoterapeuta, opinionista e consulente legale in molti casi giudiziari.
E’ possibile un suicidio a vent’anni di distanza dal caso, dopo essere stati scagionati, solo per il fatto di essere stati chiamati a testimoniare nel nuovo dibattimento?
E’ d’accordo con quanto sostiene l’avvocato dell’ex fidanzato di Simonetta, oggi il maggior indiziato, che è stata la vicinanza con il riaprirsi del dibattimento a scatenare il gesto?
Assolutamente sì. E’ evidente che è un fatto collegato a quanto sta succedendo: la riapertura del processo, la chiamata a testimoniare, tutto questo ha fatto riemergere un fantasma di cui evidentemente Vanacore non si è mai liberato e che questa vicenda ha riproposto in tutta la sua drammaticità. D’altro canto questo è un paese in cui una vicenda giudiziaria quando si apre, non si chiude mai. E’ una piaga destinata a rimanere aperta per tutta la vita.
Eppure Vanacore era stato scagionato già nel 1995.
Sì, ma lo ha detto lui stesso nei biglietti che ha lasciato nella sua macchina: “Venti anni di martirio senza colpa e di sofferenza portano al suicidio”. Vanacore non cessò mai di essere sospettato e ciò che rende inquietante la vicenda non è lo stato d’animo di questa persona che può essere stato più o meno screziato, più o meno mosso da sentimenti depressivi, più o meno angosciato… Ma invece è la dimensione di un evento giudiziario che pare non debba chiudersi mai, che diventa una specie di Moloch che si mette in movimento e non si ferma mai, a schiacciare una persona.
È vero che i processi per omicidio non devono considerarsi mai chiusi, che non si prescrivono, che la giustizia deve continuare a indagare… Però diventano anche qualcosa di inquietante, un evento che diventa cosmico, senza costrutto, in cui non ci sono mai certezze ma neanche assenze di certezze. E’ il castello kafkiano per eccellenza.
Per cui una giustizia che non sa muoversi in modo preciso ed efficace può portare un individuo magari particolarmente fragile a una situazione estrema…
La giustizia in Italia è questo castello kafkiano senza certezze: una miscela dove agisce un gruppo di innocui azzeccagarbugli, che iniziano procedimenti e che non li finiscono mai, in cui è impossibile ottenere risarcimenti, dove i processi durano tempi interminabili… Una situazione che se poi è anche pompata mediaticamente, una persona che ha avuto la sfortuna di finire in questo ingranaggio, in questa lente di ingrandimento, è destinata alla distruzione. Ed è qualcosa che può capitare a chiunque.
Ci sono voci, al momento, che sostengono che Vanacore ha sempre saputo cose che non ha mai potuto rivelare…
Non saprei, non ho ancora esaminato gli ultimi avvenimenti nei particolari e non conosco le dinamiche degli ultimi avvenimenti processuali. Personalmente tendo a pensare che la riapertura del processo avrebbe dato luogo a dimensioni cannibaliche, in un paese in cui si può essere condannati in assenza di prove certe ma in esclusione di esse, come capitato ad Anna Maria Franzoni nel caso di Cogne.
L’unica strategia in un paese in cui non si può assolvere per assenza di prove ma bisogna per forza trovare un capro espiatorio diventa quella di trovare un altro colpevole a tutti i costi. Se la giustizia non è laica e non ha la forza di dire: in questo caso non abbiamo una ragionevole certezza e non possiamo condannare qualcuno, ma invece dice che qualcuno bisogna condannare per placare il Moloch, allora l’unica strategia diventa sparare su qualcun altro. Questo Moloch diventa cannibalico e auto cannibalico.
Che visione ha allora del futuro della giustizia nel nostro Paese?
C’è qualcosa di culturalmente molto deforme che riguarda il funzionamento della la giustizia, specialmente quella penale, in Italia. E’ il paese in cui probabilmente c’è il più alto tasso di illegalità in Europa e allo stesso tempo la più clamorosa recitazione di giustizia che si sia mai vista, una sorta di tronfio teatro in cui si sfuma dalla commedia alla tragedia e dalla tragedia alla commedia. Una cultura che è una miscela di lassismo e di giustizialismo combinati insieme in modo mostruoso.
(Paolo Vites)