Tenere una piantina di marijuana sul terrazzo non costituisce reato. Così la pensa la Corte di Cassazione che – benché le rigide norme in materia proibiscano la coltivazione di stupefacenti – con la sentenza 25674 ha respinto il ricorso del procuratore generale della Corte di Appello di Catanzaro. Questi voleva che un ragazzo di 23 anni, scoperto con un piantina di marijuana sul balcone della sua abitazione a Scalea, in provincia di Cosenza, non venisse assolto. Il ragionamento dei supremi giudici si è basato sul principio giuridico secondo il quale perché ci sia reato ci deve essere anche la possibilità di recare danni agli altri. In sostanza il comportamento del ragazzo «non è idoneo a porre in pericolo il bene della salute pubblica o della sicurezza pubblica».
Va da sé che la controversa decisione potrebbe rappresentare un precedente dalle imprevedibile conseguenze: da una sorta di capillare diffusione di casi di ragazzi appena maggiorenni che si coltivano le piantine sul terrazzo all’introduzione di principi sempre più “anti-proibizionisti”. La legge è legge. Ma, essa coincide anche con il giusto? E, soprattutto, quali sono le ripercussioni sul piano educativo? Ilsussidiario.net lo ha chiesto al professor Giuseppe Bertagna. Secondo il quale, anzitutto, parlare di via libera alla coltivazione è una scorrettezza dei media.
«Si tratta di un errore epistemologico. Bisogna sempre ricordare che le sentenze valgano per i casi specifici a cui si riferiscono e non è corretto ricavare da una fattispecie un’indicazione generale. Non si può ricavare in maniera deduttiva, da una sentenza, un principio di tipo educativo – che riguarda le modalità con cui far crescere le persone – né un principio di tipo etico». Secondo Bertagna, la sentenza afferma la libertà come valore.
Tale valore, tuttavia, «va esercitato secondo due vincoli: il primo è quello dell’etica. Bisogna vedere se l’azione scelta non solo è buona nei confronti del soggetto, ma anche nei confronti degli altri. Il secondo vincolo, appunto, è di tipo giuridico. Per chi non crede nel bene, abbiamo il giusto». Prescindendo dall’aspetto giuridico, ed entrando nel vivo di quello educativo, spiega: «Ci differenziamo dagli animali perché manteniamo 4 caratteristiche: l’intenzionalità, la ragione, la libertà e la responsabilità. Quando le perdiamo diventiamo molto simili agli animali. Anzi, siamo animali».
Secondo il suo ragionamento, quindi, «tutto ciò che mette in crisi, fosse anche per un momento soltanto, queste dimensioni non è bene e la marijuana, anche se per un solo istante, obnubila tali facoltà. Quindi, dal punto di vista pedagogico ed educativo non è positivo». Ovviamente, quindi, «non tutto ciò che è legittimo è morale. Una sentenza della Cassazione riguarda per sua natura la norma. Ma mi devo domandare se tutto ciò che è legittimo è anche buono, vero e bello».
In conclusione: «E’ vero che chi ha scelto di coltivare la cannabis, e di consumarla, lo ha fatto liberamente. Ma, nel momento in cui ha deciso di consumarla, non può più tornare indietro. Se si pentisse a metà dell’ingestione, in quel momento sarebbe sovrastato da una necessità chimica e biologica».
(di Paolo Nessi)