Università e carcere. Esistono due mondi più lontani? Eppure c’è qualcuno che cerca di avvicinarli da sempre. Lorenzo Contri, ad esempio. Classe 1922, emerito di Scienza delle Costruzioni nell’Università di Padova. Lunedì 17 settembre l’aula magna dell’ateneo lo ha applaudito calorosamente a lungo (Clicca qui per guardare il video dell’incontro “Vigilando redimere Il lavoro come elemento fondamentale nel recupero del detenuto”). È stato il primo volontario a portare l’istruzione universitaria in carcere, alla fine degli anni Sessanta.
Applausi d’autore. Sul tavolo dei relatori ci sono Paola Severino, Luciano Violante, Luigi Ferrarella. Partiamo dall’ultimo dei tre. Proprio la mattina del 17 è uscito in prima pagina del Corriere della Sera un suo lungo, documentatissimo articolo: “Far lavorare i detenuti conviene a tutti”. Vagonate di cifre incontestabili. L’aria sta girando? Un titolo impensabile fino ad oggi. “Articolo coraggioso”, conferma Violante.
Violante, appunto. Il mondo del carcere non lo frequenta da ieri. Ma da quando, l’anno scorso, ha visitato il “Due Palazzi” di Padova, qualcosa è scattato. Sarà stato forse quel detenuto che gli ha sventolato la dichiarazione dei reddditi davanti alla faccia. “Vede? Ho una dignità. Lavoro. Pago le tasse. E anche volentieri”. Sarà aver visto all’opera un centinaio di detenuti impegnati nelle lavorazioni più diverse, dalle valige alla pasticceria. “Possiamo cambiare le leggi, ma non vinceremo questa battaglia senza idee”, afferma determinato di fronte ai 500 presenti (e alle migliaia di persone collegate in diretta con IlSussidiario.net).
Ecco allora l’Università. L’ex-presidente della Camera lancia un appello al Rettore Giuseppe Zaccaria. “Gli atenei sono strategici. Dobbiamo coinvolgerli, formare una nuova mentalità dei giovani su questi temi”.
Il ministro ascolta attentamente. Lo aveva fatto nel primo pomeriggio di fronte ai carcerati del Circondariale. Gli interlocutori più difficili. Loro in dieci assiepati in una cella da cinque. Lei a pochi centimetri, separata solo dalle sbarre. Ascolta aspettando che gli interlocutori abbiano parlato (i detenuti sono mediamente ottimi oratori). Replica a bassa voce, sottolinea i passaggi positivi, rilancia sulla fiducia: “Qui mi sento sicura, non ho paura di voi. Conto che quando sarete usciti aiuterete anche gli altri ad essere altrettanto sicuri: se mettiamo insieme reinserimento e sicurezza abbiamo vinto la partita”.
Giornata decisamente piena di emozioni. Il ministro mette da parte il discorso già preparato. “Sarò più disordinata nell’esposizione, pazienza. Ma devo condividere con voi i sentimenti che ho vissuto oggi”. Cosa l’ha emozionata? Paola Severino lo spiega con una parola sola. Concretezza. “Lavoro vero, biciclette fatte in catena di montaggio, panettoni eccezionali, chiavi usb, non i soliti pezzetti messi insieme per far passare un po’ di tempo ai carcerati”. Roba solida, “che attira gli imprenditori, in certi casi li convince a non investire all’estero”. Motivazioni umanitarie? Ma va là. O magari anche. Ma qui lo Stato ci guadagna fior di soldi, dice il ministro citando i numeri di Ferrarella. Ecco perché aiutarli.
Ma Severino non ama le promesse. Non deve farsi rieleggere fra qualche mese. “Qualche idea ce l’ho, ma non ve la dico”. D’accordo con Violante, propone al rettore di avviare un lavoro in università su questi temi, invito colto immediatamente dal numero uno dell’ateneo patavino. E per gli applausi di incoraggiamento ha la risposta pronta: “Se la legge Smuraglia sugli incentivi a chi porta lavoro in carcere verrà finanziata, allora tornerò qui per gli applausi”.
Musica per le orecchie di Nicola Boscoletto, l’imprenditore veneto che il lavoro in carcere lo porta da venticinque anni. Ma anche per i suoi “colleghi” Piero Parente della Ecosol e Luciano Pantarotto di Men at Work, le coop che operano nelle galere di Torino e Rebibbia Nuovo Complesso, così come per i rappresentanti di Federsolidarietà e Legacoop sociale, pronti a raccogliere la sfida delle lavorazioni carcerarie.
Padova sembra proprio il posto giusto per ragionamenti del genere. Di sistema-Padova parla il ministro sotto gli occhi compiaciuti del sindaco Zanonato. Ma anche di Giovanni Tamburino. È il capo del DAP, ovvero di tutte le carceri italiane. Ma negli anni Sessanta fu lui il giovane magistrato a permettere al professor Contri di varcare quei cancelli. C’è anche Giovanni Maria Pavarin, magistrato di sorveglianza di ampie vedute e grande esperienza. C’è soprattutto Pietro Calogero, l’uomo che menò colpi tremendi al terrorismo nero e rosso, che in cinque minuti regala ai presenti una mini-lezione, spiegando come e perché il lavoro in carcere sia anzitutto un diritto, non una benevola concessione soggetta alla discrezionalità del politico di turno.
Boscoletto richiama esperienze storiche come le biciclette Rizzato, costruite in carcere fino agli anni Ottanta. Allora tutto finì a causa di una legislazione poco felice. Anche Officina Giotto ha una catena di montaggio che sforna 150 biciclette al giorno, tutte di grandi firme: Torpado, Bottecchia, Fondriest. Ma non finirà come la Rizzato. Paola Severino lo garantisce. “Terminare il mio mandato senza aver almeno avviato la soluzione del problema del lavoro penitenziario per me sarebbe una sconfitta, un grande dolore”. Grazie signor ministro. Ci vediamo in aula magna fra qualche mese. Se tutto va come si spera, l’applauso è garantito.
(Eugenio Andreatta)