Gli Stati Uniti e il mondo intero continuano a seguire la drammatica vicenda del piccolo Ethan, 5 anni e sofferente di problemi di autismo, rapito da un veterano della guerra nel Vietnam e rinchiuso insieme a lui da giorni dentro un bunker sotterraneo. Una storia di ordinaria follia, cominciata quando Jimmy Lee Dykes, 65 anni, è salito su uno scuolabus del suo paese, Midlands nell’Alabama, e ha chiesto gli fossero consegnati due bambini. Il conducente gli ha sbarrato l’ingresso sul bus permettendo ai ragazzini di fuggire dall’uscita posteriore. Dykes lo ha freddato con alcuni colpi di pistola poi è riuscito a rapire uno dei bambini e lo ha portato con sé. Da cinque giorni proseguono i negoziati con l’uomo nella speranza di ottenere la liberazione del piccolo Ethan. Quello dei veterani delle tante guerre in cui gli Stati Uniti si sono impegnati negli ultimi decenni è un problema che attraversa il sistema nervoso della società americana. Secondo alcune statistiche se ne uccidono ventidue al giorno, mentre altri si buttano in gesti disperati come quello di Jimmy Lee Dykes. Ilsussidiario.net ne ha parlato con Guido Piccarolo, italiano che lavora a Los Angeles e da anni impegnato in un progetto di sostegno e di recupero dei veterani di guerra: “Queste sono persone che vivono un dramma, una malattia, con conseguenze drevastanti. Quello che noi cerchiamo di fare è aiutarli non a trovare una ragione per uccidersi, come dicono molti di loro, ma una ragione per vivere”.



Quello che sta succedendo in Alabama è l’ennesimo dramma che coinvolge un veterano di guerra. Che succede a queste persone per compiere questo tipo di gesti?

E’ il dramma dell’umanità ferita. Uno si ritrova a vivere con la conseguenza fisica e mentale di essere stato in guerra. Questa esperienza pone in primo piano il problema di essere accettato per quel che sei. Quello che queste persone vedono e subiscono durante la guerra è qualcosa di enorme, in termini di traumi psicologici e fisici a cui vengono sottoposti. Sono traumi inimmaginabili, bisogna essere stati in guerra per sapere di cosa si tratta. Ma quello che hanno visto e provato porta a un punto di non ritorno.



Nel caso dell’Alabama abbiamo un veterano del Vietnam, gente che forse essendo tornata a casa da una guerra persa non è mai stata accettata come è stato con i veterani della Seconda guerra mondiale, accolti invece come vincitori. Che ne pensa?

Personalmente ho avuto a che fare molto poco con veterani del Vietnam e non saprei dire se questa teoria è fondata. So però che è realmente difficile tornare da una guerra e stare a guardare la realtà per come è. Nel cercare di ritrovare un ambientamento, vivi degli scompensi molto duri. Va poi detto che rispetto ai tempi del Vietnam la medicina ha fatto molti progressi e oggi è più facile curare i veterani rispetto a quanto si poteva fare ai tempi del Vietnam, i cui soldati hanno subito un trauma probabilmente mai curato in modo serio.



Però il dramma dei veterani di guerre più recenti come quella in Afghanistan e in Iraq esiste comunque. 

Infatti. Quello che ho visto io in questi anni in cui ho cominciato a occuparmi di loro è una incapacità di abbracciare quello che è il mio umano, che adesso è un umano cambiato e ferito. Il problema è ricominciare a vivere accettando questa differenza fisica e mentale che puoi avere, percepire se sarai accolto adesso che sei così diverso: questo è il loro dramma.

 

La vostra associazione di quanti veterani si occupa?

Noi siamo una piccola realtà, insegniamo loro a fare un lavoro di tipo amministrativo come contract specialists. Lavorano per l’ospedale curando i contratti e la revisione dei contratti stessi. Attualmente diamo lavoro a cinque persone, negli ultimi anni ne sono passati tra training e assunzione una cinquantina. Poi ce ne sono altri con cui continuiamo a rimanere in contatto e che facciamo assumere quando riusciamo a trovare dei contratti.

 

Come è nato il desiderio di occuparsi di queste persone?

Un giorno mi è capitato di leggere un articolo in cui un veterano di trent’anni diceva una cosa semplice ma drammatica, che riassume il problema. Ho dato tutto di me, tutta la mia vita per difendere la libertà del mio paese, sono tornato e adesso mi sto perdendo. Ho perso la mia famiglia, la casa, non ho più un lavoro e quando mi sveglio devo trovare una ragione per non uccidermi. E’ questo che mi ha colpito; ho pensato alla mia vita nella quale il problema non è trovare una ragione per uccidersi, ma per vivere.

 

Come è possibile aiutarli a fare questo passo?

Cercando di far sì che ci sia una speranza, una possibilità di vivere. Questo è quello che ho capito e che mi insegna a vivere con una ragione. Siccome questo è un problema reale, in questi cinque anni abbiamo partecipato alla loro scoperta di un significato del vivere, anche attraverso il funerale di alcuni di questi ragazzi. Vivi sempre in questo confine  tra vita e morte.

 

Puo spiegare?

Qualche mese fa uno di questi ragazzi ci ha detto che attraverso questo lavoro e il bene che ha ricevuto da noi ha trovato una ragione per vivere, una ragione per alzarsi al mattino e di vivere. Cinque anni fa eravamo partiti dal fatto di uno che cercava una ragione per non uccidersi e un altro nella stessa situazione oggi ha potuto dire che ha trovato una ragione per vivere. Cinque persone sono una goccia di fronte all’oceano ma se non si comincia da uno si continua a rimandare il problema aspettando di poterlo risolvere con chissà quale aiuto dall’alto.

 

Quello che li aiuta è essere posti di fronte al significato del vivere?

Non abbiamo la pretesa di risolvere i loro problemi ma che gli sia dato uno strumento per stare nel reale. Uno di questi ragazzi ha lavorato con noi per quasi un anno e adesso è tornato in Afghanistan. Ci ha detto che ha ricevuto un abbraccio tale alla sua persona, tale da farlo ripartire con una speranza che c’è qualcosa che può sostenere la sua vita. 

Quando si pensa a queste persone o al problema delle armi in America, si finisce sempre per cadere nella retorica e nell’invocare leggi o un pacifismo facile che possano risolvere tutto.

La retorica c’è, probabilmente in America viene dato meno risalto a questi problemi di quanto facciate voi in Europa. Nel caso che stiamo vedendo in Alabama addirittura i giornali quasi non dicono che si tratta di un veterano di guerra. Il problema lo pongono comunque tutti, dicono che esiste, ma cosa fare, cosa offrire a queste persone non lo dice nessuno. 

 

In definitiva?

Se tu non vivi nulla non offri nulla. Se c’è qualcosa che vivi, seppur piccolo quanto vuoi, può essere invece un segno di speranza.

(Paolo Vites)