Da archivista documentalista quale sono, la notizia della condanna di Google nella causa sul diritto all’oblio intentata dall’avvocato spagnolo Mario Costeja Gonzàlez mi lascia interdetto, ma non molto più di quanto mi lascino interdetto le reazioni di segno opposto, che mi paiono in massima parte improntate a quel funesto mito della trasparenza che sta distruggendo l’Italia e il mondo a furia di intercettazioni coram populo e riunioni di lavoro in streaming. Un po’ di oblio, infatti, o di sana discrezione, sono il fondamento della convivenza civile, perché il pudore è un sentimento connaturato all’uomo, non una sovrastruttura indotta dal potere.
Tuttavia, quel che mi lascia non interdetto ma profondamente addolorato, e che mi pare il vero vulnus della faccenda, è che una comprensibile richiesta di privacy su fatti non pubblicamente rilevanti possa provocare un dibattito su un presunto diritto all’oblio. Perché quello della privacy è un problema che attiene alla gestione delle informazioni, alla naturale discrezione con cui desideriamo che le nostre cose, tanto più il nostro “private world”, venga trattato. Tutti noi, infatti, abbiamo esperienza di un momento, almeno uno, in cui ci siamo così profondamente vergognati di noi stessi da volere sparire. Di un momento di odio a noi stessi così incendiario, così urticante da trapassare e corrodere qualsiasi cosa di buono possiamo aver fatto o essere: tutto bruciato da quell’istante di vergogna, pentimento, delusione (nomi antichi che ci piacerebbe non ci fossero nelle nostre membra, ma che grazie a Dio ci sono).
È un esperienza comune e diffusa, cui facilmente veniamo incontro tentando di fare scomparire, se non noi stessi, almeno l’azione «incriminata», quella che tanta vergogna ci provoca. È un desiderio acuto, lo capisco. L’ho provato e lo capisco. Ma è un desiderio malvagio, è un tale odio alla verità di sé che non posso accettare di considerarlo un diritto. Non lo è, perché tu, chiunque tu sia, non sei soltanto tuo. Sei anche un po’ mio. Mi hai tirato un pugno? Bene. Io voglio poterti odiare. O poterti perdonare. Non voglio cancellare la storia, questa storia tra me e te, tra te e il mondo, perché cancellare un pezzo della tua storia significa cancellare un pezzo della tua identità.
Non mi interessa, come a molti contestatori della sentenza, che tu stia aprendo una via perché chiunque un domani possa «nascondere le proprie malefatte» appellandosi a questo presunto diritto. Mi interessa che queste malefatte, come quel bene che dimentichi di essere, sono carne e storia e sono parte essenziale del mistero con cui la storia si muove incontro al proprio fine. Voglio poterti odiare. O poterti perdonare. Voglio poter sperare su di te, sull’interezza di te, non su una tua parte. Voglio poter amare lo sbaglio che hai fatto, come amo lo sbaglio di Pilato, la sua vergogna, il fatto che – chissà – un istante prima di morire, abbia avuto la possibilità di dirsi: «Oh, cielo, come vorrei, quel giorno, aver conservato sporche le mie mani».