Un déjà vu, tanto violento quanto disturbante. Un altro bambino, piccolissimo, a pancia in giù, quasi fosse un bambolotto gettato via con fastidio, perso durante una fuga precipitosa. Invece è un bambino in carne e ossa, annegato mentre con la famiglia cercava di passare un fiume che dalla Birmania avrebbe permesso di fuggire in Bangladesh.
Già le locazioni geografiche la dicono lunga del livello di disperazione che la foto di Mohammed Shohayet, 16 mesi, che ricorda così tanto quella altrettanto intollerabile di Aylan Kurdi, il bambino siriano trovato morto anche lui annegato su una spiaggia turca nel settembre del 2015, contiene. Alan e la sua famiglia cercavano la fuga nei ricchi paesi dell’Europa occidentale, ma la famiglia di Mohammed? Fuggivano da uno dei paesi più poveri del mondo, di cui facciamo anche fatica a ricordare il nome che ha assunto da diversi decenni, Myanmar, e continuiamo a chiamarlo con il nome colonialista di Birmania che così facciamo prima e ci capiamo. Anche se chissà quanti sanno dove si trova.
Ma si può essere così disperati da cercare salvezza in un altro dei paesi più poveri, tartassato da cataclismi naturali e fame come il Bangladesh? Evidentemente si può, se a casa tua fai parte di una minoranza perseguitata, schiavizzata e ammazzata da secoli.
E’ un cortocircuito di informazioni e convinzioni quello che scaturisce da questa nuova foto, quelle informazioni che noi occidentali assumiamo come bere un bicchiere d’acqua, in questa epoca di post-verità e notizie fake. Perché Mohammed, il nome già ce lo avrebbe dovuto far capire, era di famiglia musulmana. Quei musulmani che in Medio Oriente (alcuni di loro) fanno strage di altre minoranze (cristiani o yazidi) e colpiscono con attentati sanguinari a casa nostra al grido di “Allah Akbar”. Qua invece i perseguitati sono loro. Non è assurdo? Non è tragicamente ironico? Questa foto è la misura di un mondo e di una sofferenza che ignoriamo bellamente, imbevuti di slogan e di commenti da quattro soldi.
La famiglia del piccolo era di etnia Rohingya, una minoranza musulmana da sempre perseguitata dal regime militare birmano, anche adesso che il Nobel per la pace Aung San Suu Kyi è consigliere di stato dopo aver passato decenni agli arresti domiciliari voluti da quegli stessi militari.
“Nel nostro villaggio gli elicotteri ci hanno sparato contro e poi i soldati birmani ci hanno sparato contro. Non potevamo restare nella nostra casa. Siamo dovuti scappare e nasconderci nella giungla. Ma mio nonno e mia nonna sono stati bruciati vivi. Il nostro villaggio è stato incendiato dai militari. Non è rimasto nulla” ha raccontato il padre del bambino, l’unico a essersi salvato. Sono annegati anche la madre e il fratellino di 3 anni e mezzo.
Il milione e mezzo di musulmani, denigrati e privati di ogni diritto civile, da diversi mesi sono oggetto di un tentativo di pulizia etnica, come già successo negli anni 70. Il regime militare, per tenersi buona la maggioranza del popolo che è di religione buddista e da secoli mal tollera la minoranza musulmana, anzi la perseguita apertamente, sta cercando la soluzione finale nei confronti di quello che è stato definito “il popolo meno voluto al mondo”. Molti di loro, fuggiti anche in Thailandia in tempi recenti, secondo testimonianze raccolte dall’Onu, sono stati gettati su scafi malandati e spediti in mezzo al mare ad affogarsi.
La stessa Aung San Suu Kyi sembra far finta di niente, anzi secondo alcuni tollera e condivide la pulizia etnica. Lo scorso luglio migliaia di buddisti tra cui molti monaci sono sfilati per le strade della ex capitale Yangon protestando contro la richiesta delle Nazioni Unite di riconoscere alla minoranza Rohingya lo status di cittadini birmani.
La foto di questo nuovo piccolo martire nell’orrore che rappresenta, ci dice allora che la realtà non è mai bianca o nera. Che per un musulmano che uccide ce ne sono molti altri che vengono uccisi. Che il buddismo non è esattamente fiori di loto e Dalai Lama con le mani giunte e il volto sorridente. Che ovunque ci giriamo nel mondo ci sono minoranze e popoli calpestati e massacrati. Che il male è dappertutto.
E il bene? Sui nostri social network la foto di Mohammed ha girato poco (tra l’altro risale a dicembre e se ne parla solo ora), quasi nessuno ha commentato questa immagine. Abbiamo già dato con Aylan, grazie.