Che cosa difendiamo quando difendiamo un principio? A quali reali esperienze di affezione, a quali legami, i princìpi che elaboriamo e difendiamo si intrecciano? Ancora una volta, osservando la legge sulla legittima difesa appena approvata dalla Camera, si ha l’impressione di una rincorsa del legislatore agli umori di superficie dell’elettorato, piuttosto che a un accoglimento delle sue esigenze profonde.



Fatte salve le possibili mende che il Senato potrà apportarvi, infatti, il testo approvato non fa che confermare la sensazione di una mancanza assoluta di visione d’insieme da parte della classe politica e, in fondo, anche di noi che la votiamo. Mancanza di visione di che cosa sia una società, di che cosa sia uno Stato e di che cosa regoli il rapporto tra le due entità. L’impressione che certi pasticci legislativi lasciano addosso è infatti quella di chi — avrebbero detto i miei avi napoletani — “te vuo’ fa’ content’ e fesso”. Da un lato, si cerca di eliminare il principio di proporzionalità della difesa per accontentare il partito degli sceriffi; dall’altro, sceriffi sì, ma solo di notte (il che è assurdo per decine di motivi su cui a quest’ora il web si è già largamente espresso). L’importante è che, per l’ennesima volta, si possa perpetrare l’illusione mefitica che il giudice non abbia discrezionalità in merito, ma che sia invece lo scritto — come in altri casi l’algoritmo — a decidere insindacabilmente cos’è bene e cos’è male.



Una legge, insomma, che sembra il solito tentativo di lasciarci liberi di andare legandoci mani e braccia. Anche perché, grazie al cielo, se anche venisse approvata così com’è, resterà la giusta difficoltà di ottenere un porto d’armi per legittima difesa e le armi continueranno a non essere vendute al banco dei salumi.

Detto quindi che ciò di cui stiamo parlando è l’ennesima discussione intorno a un oggetto che sta altrove, proviamo a identificarlo, questo oggetto. Che cosa chiede davvero il cittadino-sceriffo che tante volte a sentirlo parlare sembra la caricatura di se stesso? E che cosa aborrono le colombelle dall’animo buono pronte a bannare da Facebook o a togliere il saluto a chiunque percepisca — e diciamolo, a Saviano, che percepire non è sinonimo di essere visionari — l’insicurezza diffusa che accompagna le nostre vite e i nostri giorni?



Chi scrive ha poca esperienza con le armi da fuoco, ma sufficiente per non avere nessuna voglia di possederne una. Allo stesso tempo, però, ha sufficiente esperienza per affermare che nessuno sa ciò che accadrà domani. Possiamo ragionevolmente prevederlo e su queste ragionevoli previsioni fondiamo i nostri programmi di giornata. Ma non sappiamo se e quando il mistero del male intercetterà le nostre vite, né come eventualmente lo farà.

La questione va rovesciata allora sulla costruzione e la difesa del bene. E allora la politica, ma prima della politica la società, deve farsi un po’ di domande per continuare a vivere insieme. Per esempio, la proprietà privata è un bene? O hanno ragione le nostalgie rousseauiane per cui in fondo in fondo ogni volta che si dice “questo è mio” si sta implicitamente commettendo un furto alle spalle dei nostri fratelli uomini più poveri? E gli ordinamenti sociali sono un bene? E sono un bene sempre, chiunque ne sia il soggetto istitutore e quale ne sia la struttura, o ce ne sono di più adatti e di meno adatti al vivere comune? 

Discorsi sui massimi sistemi, forse, ma — facciamocene una ragione — sono i massimi sistemi, i princìpi, gli ideali, a guidare la nostra azione nel mondo. Perciò non è irrilevante, quando chiediamo una nuova legge, chiederci che cosa davvero vogliamo. Qual è la ratio di una legge come quella sulla legittima difesa? Eliminare il male o tentare di arginarlo? Perché sì, è vero che lo Stato deve difenderci e non lasciare in mano a noi singoli la difesa dei propri cari. Ma delegare in toto allo Stato la parte attiva del vivere sociale è qualcosa di vicinissimo all’accettazione di una vita da sudditi, in cui si cede il proprio libero agire in cambio di una sicurezza ovattata. E noi troppo spesso siamo abituati a lamentarci solo quando non c’è abbastanza ovatta.

C’è da chiedersi tutti, insomma, con molta schiettezza e molta carità reciproca, che cosa vogliamo e perché lo vogliamo. Vogliamo la possibilità di vendicarci? Di ammazzare impunemente chiunque ci abbia fatto spaventare? O vogliamo la certezza di non essere incriminati per aver difeso i nostri cari? E chi giustamente evidenzia la dignità e l’intangibilità di ogni singolo uomo, ha mai ascoltato sul serio l’inno pacifista di De André? Quando Piero va in guerra non ha nessuna voglia di combattere, ma si trova costretto a farlo quando incontra uno con “lo stesso identico umore/ ma la divisa di un altro colore”. 

Ascoltiamoci, dunque, ascoltiamoci e cerchiamo di parlare delle cose e non dei loro simulacri, perché nessuno di noi sa se il suo compito domani sarà quello di ammazzare un estraneo — e di portarne il peso tutta la vita — per difendere una persona amata. Ma per avere il coraggio di ammetterlo, per avere il coraggio di ammettere che sia giusto difendersi da un’aggressione, bisogna avere il coraggio di affermare la positività del reale, con tutte le pieghe misteriosamente cattive che può assumere.

Bisogna che abbiamo il coraggio di ricordarci che il contrario di “diritto” è “storto”. Non dimentichiamolo. Perché se non ricominciamo a identificare il diritto col giusto e il non diritto con lo storto, non avremo nessuna ragione — e nessuna potestà — per affermare che qualcosa sia più desiderabile di qualcos’altro. Né, tanto meno, per affermare che la vita e il bene vadano riconosciuti e difesi sempre. E che in certe tragiche circostanze, questa difesa possa incontrare la morte.