Il Giro è finito, ridateci il Giro. Non quello che abbiamo sofferto quest’anno, fatto di puri trasferimenti in gruppo, finti scatti e solo in vista dei traguardi volanti, lunghissime pause in attesa che accadesse qualcosa di importante, qualcosa che riempisse i cuori e facesse gridare il nome dell’uno o dell’altro. Rivogliamo le fughe da lontano, gli scatti rabbiosi, le fiammate dei muscoli tesi, gli arrivi a bocca aperta e, se necessario, anche le rivalità fatte di sguardi temerari e stralunati.
Il Giro che oggi giunge all’arrivo nella Città Eterna è stato l’ennesimo di una serie deludente che, con qualche timida eccezione, ha caratterizzato le ultime edizioni della Rosa. Giochi di squadra portati all’estremo, ipotesi da ragionieri sui pedali e tanti, troppi tornaconti economici di sponsor affamati lo stanno uccidendo (vedi la qualità abnorme di stacchi pubblicitari in televisione). Uccidono, intendo, la bellezza di uno sport nato con la fatica e che di fatica ancora si nutre, ma in funzione di un calcolo matematico, non più di un sentimento. “La salita è un muro di ciottoli e mota. Bisogna allargare ai margini erbosi per stare in sella. Fausto si appende al manubrio come alla doppia corda. Gli si stracciano le cosce. Incomincia a dubitare di sé” scrive l’immenso Gianni Brera nel suo “Coppi e il Diavolo” a proposito del Giro di Toscana del 1939.
Altra epoca, sicuro, altre strade, certo (e anche altro giornalismo, quello che non si accontentava di frasi fatte e ripetute all’infinito perché andava alla ricerca della poesia), ma non basta a giustificare un pedalare tutti assieme fino all’ultima rampa, fin sotto lo striscione col triangolo rosso che poi non infiamma più nessun toro in bicicletta. Di rischi, i corridori ne prendono ancora (pedalare in cima a due gomme larghe un centimetro e sopra un sellino che nemmeno si vede, tanto è stretto, rimane pur sempre affare da gente coraggiosa), ma giusto quelli da sigla sindacale. Il massimo è stato raggiunto alla tredicesima tappa, che invece di partire da Borgofranco di Ivrea ha preso il via da Le Chable. Cinque stellette ridicolizzate sia per la riduzione del chilometraggio da 207 a 75, sia per aver evitato l’ascesa al Gran San Bernardo, sia soprattutto per la motivazione: aver applicato, su richiesta della grande maggioranza degli atleti, l’Extreme Weather Protocol in base a presunte previsioni meteo nefaste. In realtà era prevista un po’ di pioggia, niente neve, che certo avrebbe reso più pericolosa la discesa dalla Svizzera verso la Lombardia, ma che avrebbe anche fatto il solletico alle immagini in bianco e nero dei Giri anni Cinquanta-Settanta (non osiamo andare più indietro): per tutte, lo scatto fotografico che immortalò l’airone Coppi solo in cima allo Stelvio mentre sbircia un W Fausto disegnato su un cumulo di neve alto così. Senza capo sportivo in tessuto ultra-traspirante e idrorepellente, ma con la maglia di lana.
E allora viva la gente che, nonostante tutto e a dispetto di questo ciclismo bislacco da rivisitate “bellezze in bicicletta”, ha ricoperto di rosa i cancelli delle case, le balle di fieno nei campi, i campanili delle chiese, l’asfalto dei centri storici, i vestiti dei bambini portati ancora una volta sul ciglio delle strade – com’è sempre stato da quel lontano 1909 in cui tutto ebbe inizio – da genitori che hanno preso le ferie apposta o da nonni che si sono risentiti giovani d’un tratto. Tutti tifosi di sempre o di un giorno che vogliono continuare a vivere l’illusione della fuga da lontano, magari (ma è un altro tasto dolente) di un italiano in lotta per la maglia rosa.
Non siamo sadici o nostalgici, non vogliamo uomini spiaccicati contro un muro o con la broncopolmonite da maltempo, ma nemmeno può accontentarci un “il ciclismo è cambiato, cambiano anche i corridori” del direttore di corsa Mauro Vegni. Altrimenti, meglio darsi al ping-pong, disciplina nobilissima, ma che di regola si svolge al chiuso.
Seguire le tappe alla tv è stata una lotta contro gli sbadigli nonostante il lavoraccio (in senso buono) svolto dalla troupe della Rai per cercare di ravvivarle. Seguirle dal vivo è stato persino peggio, perché vedere cento corridori che passano in gruppo non regala le stesse emozioni di vederne uno solo al comando. Ecco, appunto, ridateci “un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome…” del mitico Ferretti: anche se quel nome non può essere Coppi, almeno potremo tornare a sognare.
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