Ma perché il premier italiano Giuseppe Conte dovrebbe rispondere al buio alla convocazione di Angela Merkel ed Emmanuel Macron per il fine settimana a Bruxelles, ufficialmente per discutere dell’emergenza migranti? Conte rischia di trovarsi “uno contro tre”: in una situazione non molto diversa da quella del premier greco Alexis Tsipras, tre anni fa, per un’intera notte davanti alla cancelliera tedesca e al presidente francese (allora François Hollande), a discolparsi della mossa a sorpresa del referendum anti-Ue e accettare l’austerity imposta ad Atene.
Questa volta una sceneggiatura diplomatica improvvisata e spregiudicata fra Parigi e Berlino prevede come “terzo di comodo” anche il premier spagnolo Pedro Sanchez, promosso sul campo Buono d’Europa da contrapporre al Cattivissimo vicepremier italiano Matteo Salvini. Quest’ultimo risulterebbe ovviamente escluso dal vertice. Merkel e Macron hanno infatti pensato bene di usare subito contro Roma la nuova struttura di governo italiana: chiamando il premier-portavoce (espresso da M5s) a rispondere delle scelte del vicepremier leader della Lega. Una mossa più scomposta che machiavellica, nel tentativo — ai limiti dell’interferenza — di incuneare il direttorio Ue nei nuovi equilibri di governo in Italia.
Dopo il bilaterale di lunedì — volto a riaffermare affannosamente la diarchia franco-tedesca nella Ue in vista del Consiglio dei capi di Stato e di governo a fine mese — il pre-vertice a quattro di domenica è nato su un canovaccio misto di scacchi e poker: i giochi preferiti, peraltro, da Russia e Usa. Trump e Putin sono i due convitati di pietra a un tavolo in cui la posta è molto più alta di un compromesso su hotspot e costi di accoglienza di qualche decina di migliaia di africani in Europa. La vera posta in gioco è l’Europa stessa, o meglio: un maggiore o minore discontinuità politico-istituzionale nel governo dell’Europa, con un’inevitabile tendenza al ricambio dei nomi, delle idee politiche, delle regole e dei meccanismi.
Merkel e Macron rappresentano la “seconda repubblica” Ue, quella di Maastricht. Un regime quasi trentennale, oggi in crisi. Sono lontani i fasti dei vertici renani fra Giscard D’Estaing e Schmidt, dell’asse carolingio fra Mitterrand e Kohl, della riunificazione tedesca, della nascita dell’euro, di un certo euro-approccio alla crisi finanziaria e agli sviluppi geopolitici nel globo. Sembra in archivio anche la foto di Merkel e Sarkozy che sette anni fa seppelliscono sotto una risata Silvio Berlusconi e con lui tutta l’Italia al guinzaglio dello spread, con il tifo a “fare presto” dei media nazionali.
Sulla guerra di Libia del 2011 — scatenata dalla Francia con l’appoggio di un presidente americano Nobel per la pace — indagano intanto gli stessi magistrati francesi: Sarkozy — è il sospetto — voleva solo eliminare con Gheddafi le prove di finanziamenti elettorali scottanti. E tanto meglio se come effetto collaterale l’Italia avrebbe perso un’importante testa di ponte Eni nel Nord Africa e se scafisti e migranti avrebbero cominciato a dare grattacapi a Sicilia e dintorni.
Anche per Merkel non è più il momento di godersi da Berlino la distruzione del Berlusconi di turno, tacciato di essere la quinta colonna in Europa del leader russo Putin. Al contrario, è la cancelliera a ritrovarsi oggi nel ruolo scomodo di mohicana delle “vecchie” sanzioni geopolitiche di Obama a Mosca, mentre il successore Trump sta scuotendo il mondo con una nuova guerra squisitamente commerciale: contro la Ue, contro la Cina, pro “America First” e riagganciando la Russia.
E’ di fronte a questa escalation che l’Azienda-Germania — la stessa che ha lanciato alla Merkel un pesante avvertimento con la quasi-sconfitta elettorale dello scorso settembre — ha fissato ora alla cancelliera un vero e proprio ultimatum. Formalmente è quello postole dal suo ministro degli Interni, il bavarese Horst Seehofer, favorevole a una stretta “all’italiana” sui migranti. Seehofer, leader della Csu gemella della Cdu e decisiva per il faticoso governo di coalizione appena partito in Germania, ha concesso a Merkel solo la chance di trovare una soluzione al Consiglio Ue del 28-29 giugno.
Nei fatti, dietro di lui preme l’establishment tedesco: in allarme rosso per l’assedio che sta stringendo il più importante Paese Ue. Ammesso che non sia definitivamente logorata da 13 anni di regno, Merkel deve scordarsi il ruolo di erede globale del politically correct obamiano (già sconfitto in America) e di “alta moderatrice” dell’Europa dei tecnocrati, che non ha saputo evitare brusche svolte in Italia, Austria o nei paesi del gruppo di Visegrad. La cancelliera deve ripartire con realpolitik dalla sua stessa Germania: quella che ha rialzato il muro di Berlino contro la Russia e si è inimicata l’America di Trump. E se la grande industria morde sempre più il freno verso est, oltre Atlantico vi è il rischio serio e concreto di un crack della Deutsche Bank, che produrrebbe una sorta di implosione nucleare nel sistema-Germania.
Vi sono pochi dubbi che fra Berlino, Francoforte, Monaco, tutti sacrificherebbero senza troppi problemi un cancelliere che si è preoccupato dei migranti siriani forse più che di difendere Volkswagen & Co. dall’offensiva statunitense nel gioco dello scandalo emissioni. Per non parlare del rischio che una Merkel debole giochi male la partita del dopo-Draghi al vertice Bce: dove per la “Deutschland Ag” è strategico sieda finalmente un tedesco, il presidente della Bundesbank Jens Weidmann.
Macron non è in una situazione migliore. Fra meno di un anno in Francia ricomincerà la campagna elettorale: una scadenza insidiosa come il voto per l’europarlamento, il più sensibile alle umoralità gratuite dell’elettorato. E il presidente francese è il primo a ricordare com’è stato eletto un anno fa: raccogliendo al primo turno solo il 24% dei consensi, contro il 21% di Marine Le Pen, il 19% di François Fillon e il resto frammentato nell’eutanasia della sinistra. E’ vero che alle legislative tenutesi subito dopo la cosiddetta “maggioranza presidenziale” ha ottenuto una solida maggioranza all’Assemblea nazionale, ma lo stesso giugno 2017 sembra lontano. Cosa accadrebbe se nel maggio 2019 il Front National si ritrovasse rinvigorito dall’affermarsi progressivo delle forze “sovraniste” in Europa (in Italia e Austria e tendenzialmente in Germania)? E se la diaspora della sinistra francese si ricompattasse lungo il sentiero populista tracciato in Italia da M5s? Macron sarebbe un presidente dimezzato prima ancora della metà del suo mandato.
Su questo sfondo è intuibile perché Merkel e Macron, sempre più stretti nei loro angoli, si siano visti costretti a giocare — una volta di più — una carta ingiallita, la “convocazione a rapporto” del premier italiano in carica, dopo averlo ricevuto separatamente la settimana scorsa. Un’iniziativa azzardata: all’ultimo G7 il neofita Conte non ha avuto timori a distanziarsi da Merkel e Macron, allineandosi con Trump sul superamento delle sanzioni alla Russia. E sulla “crisi migranti” M5s è rimasto compatto sulle posizioni del vicepremier Salvini (ora chiamato a ricambiare verso il vicepremier Di Maio sul “decreto dignità”).
Al quasi-autogol — rivelatorio dello stato confusionale in cui angoscia e arroganza hanno precipitato il triangolo Parigi-Berlino-Bruxelles — ha contribuito anche la chiamata di Sanchez: appaiando arbitrariamente i due neo-premier del Sud Europa. E’ stata così evocata la debolezza finanziaria dei “Pigs” e quindi la riforma dell’eurozona, vero dossier sul tavolo fra otto giorni. Ma Germania e Francia dimenticano sempre volutamente che la Spagna ha chiesto aiuti pubblici all’Europa per salvare le sue banche: aiuti cui ha contribuito anche l’Italia, che invece non li ha mai chiesti. I lati del tavolo del pre-vertice di Bruxelles sono stati ispirati a una vecchia narrazione.
Conte-Salvini-Di Maio hanno sul tavolo un’infinità di problemi essenzialmente economici: ma stavolta non sono più gravi dei problemi di Merkel e Macron riguardo la stabilità e credibilità politica delle loro leadership, nei loro Paesi e in Europa. Per risolverli, vorrebbero nuovamente “fare presto” con l’Italia, facendola passare per causa usuale del gran disordine sotto il cielo europeo. Soprattutto in Germania, tuttavia, c’è chi è pronto a “far prestissimo” con l’Europa della Merkel.
Come sarebbero in un dopo-Merkel la Germania (probabilmente a elezioni anticipate) e l’Europa è naturalmente un’altra storia. Ma l’esito delle elezioni italiane non può essere obliterato da un’infastidita cartolina-precetto.