Il No della Repubblica d’Irlanda alla ratifica del Trattato di Lisbona viene vissuto come una sorta di tradimento del progetto di unificazione europea, di cui la terra di San Patrizio era considerata negli ultimi anni quasi una paladina, in contrasto con il tradizionale, prudente distacco britannico. Poiché sull’approvazione del Trattato si è scommessa gran parte delle speranze europeiste – dopo l’ancor bruciante ripudio franco-olandese della costituzione giscardiana – il rifiuto (“a resounding no” titolava l’“Herald”) di una nazione in rapida ascesa economica – secondo molti osservatori proprio perché sostenuta dall’Unione Europea – a fronte di un secolare passato di arretratezze (si pensi alla “Great Famine” che nell’Ottocento fece migrare più di un milione e mezzo di irishmen negli Usa), è letto come la drammatica conferma dell’utopia europeista, quasi si fosse tornati ai tempi del fallimento della Comunità Europea di Difesa (CED) inutilmente sostenuta da Alcide De Gasperi.
Il superamento di questa posizione potrebbe essere letto, come fa la Spinelli, quasi come una sorta di revanscismo nazionalista, una chiusura psicologica collettiva in cui più che le questioni morali pesa “l’illusione che gli Stati-nazione possano farcela da soli”. E soprattutto, aggiungiamo allora, si tratterebbe della fine dell’illusione irlandese che il proprio ruolo nell’Unione avrebbe garantito maggiore autonomia da Londra e, nel contempo, la crescita complessiva del paese.
Così però si resta, a mio avviso, ancora ad un livello superficiale: come scrive Mario Mauro su ilsussidiario.net, il Trattato «avrebbe potuto accrescere la democraticità dell’Unione», ma proprio tale prospettiva deve aver frenato l’entusiasmo di un popolo la cui costituzione ancora oggi presenta i maggiori elementi confessionali di tutti gli statuti nazionali continentali e in cui, ad esempio, il cattolicesimo è alla base di una politica di incremento demografico nel Nord in netta controtendenza con la minoranza protestante che ammette, a livello religioso, divorzio e contraccezione .
Se quindi i cattolici di Belfast paiono più ossequiosi di quelli italiani delle direttive della Chiesa in tema di morale sessuale e famiglia – va detto, anche per ragioni politiche (sovrastare numericamente i protestanti in Ulster) – il popolo della Repubblica d’Irlanda, per chi lo osserva dal di dentro, tiene ancora molto in conto la visione della Chiesa sulla società, al di là di qualsiasi fariseismo che gli si potrebbe, in parte anche a diritto, attribuirgli (ad esempio, c’è il divieto di vendere bevande alcoliche di Venerdì Santo e il St. Patrik’s Day è molto più che una festa religiosa).
Dalla fine della Guerra dei Trent’anni, ancora alla metà del Seicento, la religione ha smesso di costituire l’elemento fondamentale distinguente delle istituzioni nazionali nelle loro relazioni reciproche, ciò però non significa che il quadro morale cristiano su cui si è edificata culturalmente l’Europa abbia terminato di orientare le coscienze e le culture dei suoi popoli, come affermava anche l’ateo Benedetto Croce per l’Italia («non possiamo non dirci cristiani»). Non è un caso che, nella loro politica interna, i regimi nazifascisti si siano dedicati profondamente a sostituire il senso religioso popolare con l’imposizione di una astratta mistica della nazione, esso semmai è la riprova di come tale sentimento fosse forte e venisse avvertito come una grande minaccia da questi autoritarismi. Tale operazione di spoliazione, culturale ed esperienziale, non riuscì ad essi, come non sarebbe riuscita più avanti nemmeno allo stalinismo. È il medesimo senso religioso occidentale che oggi pare resistere anche al più subdolo attacco portato dalla cultura neopositivistica figlia dell’Illuminismo, soprattutto dal Sessantotto in avanti.
È per questo che l’aver trascurato l’elemento confessionale rappresenta perlomeno una tra le maggiori pietre d’inciampo allo sviluppo dell’Unione, e il caso irlandese costituisce un chiaro indicatore di tale difficoltà.